Il monte di Cambio

Dal rifugio Sebastiani dodici chilometri di aerea e facile passeggiata


Iniziare dal Terminillo, meglio ancora dal rifugio Sebastiani, posto alla quota di 1820 mt, proprio nei pressi delle fondamenta della ex montagna dei romani, è di certo la più agile e più “normale” scelta che si possa fare per raggiungere i 2081 mt del monte di Cambio; ne esce una piacevolissima quanto gratificante “passeggiatona”, ma non va presa sottogamba perché alla fine saranno dodici i km percorsi ed ottocento i metri di dislivello che tra i vari saliscendi si devono superare. In auto si supera il rifugio Sebastiani, al secondo tornante dopo il rifugio, verso la sella di Leonessa, parcheggiamo in una piazzola sulla destra, per la cronaca oltre la sella la strada era ancora invasa da neve; da li parte una sterrata, proprio sul gomito della curva che in pochissimi minuti permette di essere già in cresta sulla testata del vallone di Capo Scura. Non si fa in tempo nemmeno a scaldarsi che già si gode di un panorama di prim’ordine: a cavalcioni della cresta, nel bel mezzo di quello che possiamo chiamare uno stretto anfiteatro boscoso in basso e roccioso nelle parti sommitali, sfilano a Sud-Est i ripidi fianchi del Ritornello, del Breccioso fino alla mole più tondeggiante dell’Elefante, mentre in direzione opposta, verso Nord-Est si elevano le cime del monte Porcini e, lontana, quella della nostra meta, il monte di Cambio. Il vallone di Capo Scura serpeggia nel mezzo, ricco di vegetazione e laggiù in fondo, più o meno dalle parti di Sigillo, ancora ristagna la nebbia. La sella in cresta è ancora carica di neve, il sentiero, il primo tratto, è in comune tra il 405 che scende in valle con una carrareccia ciclabile ed il 404 che seguiremo; scivola sui fianchi della montagna verso Nord, stacca subito dalla dorsale di cresta e scende un po’ sotto, un segnavia 405 sulla sella permette di individuarlo nonostante la neve. Una cinquantina di mt giù sotto è già visibile la piazzola con una palina ricca di cartelli, dove i due sentieri si dividono definitivamente. I primi tornanti della carrareccia che scende in valle sono ancora invasi dalla neve, tagliamo il pendio e raggiungiamo subito la piazzola dove incrociano i sentieri; è un bel punto panoramico per fotografare l’aspra parete del Breccioso ed è da qui che individuo il sentiero che sale sui ripidi brecciai fino alla cresta tra il Ritornello ed appunto il Breccioso. La parte alta del traverso, quello che sale in cresta, è ancora invaso da neve, la linea del sentiero mi intriga, l’idea di ritornare sullo stretto passaggio in cresta sotto al Breccioso e da lì salire all’Elefante, ancora di più, mi sa che mi ci metto a lavorare sopra e ci inventiamo un altro bel giretto da mettere in programma. Prendiamo verso Nord un esile sentiero tra le praterie, superiamo una sella con affaccio sulla valle da dove inizia un lungo traverso che taglia ripidi pendii e tra lingue di neve, ghiaioni, un paio di torrioni che si staccano dalla cresta e radi boschi, sempre con un affaccio spettacolare sulla dorsale che corre dal Ritornello all’Elefante, dopo un chilometro e mezzo, arriviamo ad intercettare l’altra carrareccia che sale dalla strada per Leonessa. Lasciamo alle spalle l’alta cresta impervia e piacevolmente il Terminillo, tutta la cresta Sassetelli e la boscosa e minacciata Vallonina tornano a far parte dello scenario collettivo; incamminandoci sulla carrareccia che sale da valle passiamo prima accanto ad una torre rocciosa sede di una palestra di roccia del CAI di Rieti, e dopo pochi tornanti, ognuno dei quali spalanca viste sul Terminillo sempre più imperiose, ed una quindicina di minuti, scavalliamo la sella che ci porta sulla dorsale del monte Porcini. Lo scenario cambia totalmente, la valle di Capo Scura si allarga su un piccolo altopiano, quasi uno sperone, dove in bellissima posizione è posto il rifugio Porcini, sembra quasi un alpeggio dolomitico, giù nel profondo della valle le nebbie si sono dissolte, la sua inclinazione permette ora di leggerne l’orografia e di intuire il paese di Sigillo, piccolo agglomerato di case di fondo valle incastrato in un mare di ripidi boschi e montagne tormentate. Il sentiero continua ad avere i connotati di una carrareccia, a tratti invasa ancora da neve, sfila in leggera pendenza sotto il Porcini, lasciandolo sulla sinistra; è sempre molto panoramico, non è aereo, anche se i pendii a lato scendono ripidi, ma lo sguardo spazia tantissimo e la sensazione che si ha è di piacere, il piacere leggero di una passeggiata in spazi davvero molto aperti. La mole del monte di Cambio quasi non scompare mai, aggiriamo lo spigolo del Porcini fino alla leggera sella sottostante dove riprendiamo a salire e ad aggirare piccole gobbe erbose. Gli scenari mutano ad ogni svolta, anche le prospettive sulle montagne più importanti cambiano e regalano fotografie sempre diverse. Ci stiamo divertendo. Superando praterie e le tante gobbe erbose, aggiriamo diversi fossi molto incassati, avvicinandoci al Cambio uno di questi è particolarmente incassato, all’interno sono stati costruiti degli sbarramenti per convogliare le acque, segno che la furia dei temporali da queste parti è in grado di lasciare il segno; si arriva su un’ampia sella erbosa, verso Nord si spalanca la piana di Leonessa, sopra ci rimane solo da salire l’irta dorsale fino alla croce già ben visibile. Il monte di Cambio, da dove lo sali lo sali, è una tonda ma ripida piramide, lo abbiamo preso con passo lento e alla fine si è fatto domare nemmeno senza tante sofferenze. Nella mia memoria c’era la prima salita del 2009, sarà la poca esperienza di allora oppure la memoria che avrà mietuto molti neuroni e non avrà un quadro coerente di quanto era accaduto, ma ricordavo una pettata molto più noiosa e faticosa. Non ricordavo la madonnina in vetta, dal crinale mentre si sale, la croce, la più brutta croce degli Appennini secondo me, è sempre più o meno visibile; ad un certo punto della salita, poco oltre quella che si intuisce essere una palina con dei segnavia noto una sagoma scura, filiforme. Non capisco subito cosa sia, solo arrivando in cima intuisco che si tratta dell’ennesima madonnina, stile Velino, una madonnina su piedistallo posta dal CAI di Leonessa. Una targa la data 1990, c’era quando salii la prima volta, non era una questione di neuroni mietuti o sopraffatti dalla fatica evidentemente, il mio inconscio l’aveva rimossa segno di una avversione ai simbolismi in vetta radicata e coerente in me fin dagli antichi passi in montagna. La vetta del Cambio è una ampia piatta cresta di una trentina di metri, tutto attorno i versanti scivolano giù, verso Est ripidissimo, forse più del versante Ovest da dove siamo saliti, fino a valle dove spicca il paesino di Albaneto, a Sud, Sud-Est scivola via una dorsale ben pronunciata che dopo un paio di chilometri risale verso monte Iacci (una vetta meno pronunciata del Cambio ma dolcemente appuntita e che forse meriterebbe una visita), e inoltrandosi ancora per creste boscose sprofonda verso Posta; a Nord la cresta, ancora innevata, scende prima lentamente poi più decisa con una salto verso la piana di Leonessa. Parlavo della croce del Cambio, è sempre la stessa, in alluminio anodizzato, ha solo perso qualche placchetta della fila di catarifrangenti che erano stati posti sui bracci della croce (ho letto da qualche parte che erano stati messi, non ricordo da chi, per rendere più visibile la croce dal basso, nelle mattinate di tempo sereno, quando i raggi del sole ci si potevano riflettere!!!!), una delle più brutte croci degli Appennini (è un mio parere), ma tanto è, che lì rimane imperitura e inamovibile! La croce del Vettore in ferro più che sovra strutturata è stata piegata dalla furia degli elementi, questa esile, in alluminio, i bracci tenuti da quattro bulloni per giunta lenti, è lì senza aver subito nessuna ammaccatura. Viene da pensare che il Dio di questa croce possa abitare da questa parti. Quando si parla di simboli sulle montagne divento un talebano, passo sopra, ma non cancello, la mia nota volutamente polemica, e continuo col parlare di questa giornata; le nuvole sono ancora alte, tutte le montagne attorno sono sull’orizzonte splendide come sempre, la sfilata dei Sibillini, stranamente scoperti, la lunga dorsale della Laga fino al Gran Sasso, lui però incappucciato in mezzo alle nuvole, e poi le vette delle montagne del Velino un po’ incappucciate anche loro verso Sud; a chiudere il giro dell’orizzonte verso Ovest c’è la mole del vicino Giano, dietro quella del Nuria e soprattutto, ancora bianche si impongono le importanti vette del gruppo centrale del Terminillo. Un bel pulpito il Cambio, raggiunto per il sentiero che abbiamo fatto noi, mediamente lungo e senza grossi dislivelli, è una vetta che gratifica, bei panorami, aerei ma facili e alla portata di tutti, e una volta sopra lo sguardo spazia senza confini; da rivalutare assolutamente! Lo so, alla fine si finisce per dire sempre la stessa cosa di ogni montagna, ma forse è perché ogni montagna ha il suo che. Siamo rimasti in vetta una ventina di minuti, il vento che soffiava fresco e teso mentre stavamo salendo ha quasi di colpo placato la sua insistenza, una bella coincidenza che ci ha permesso di vivere un momento davvero bello, sarà retorica, ma uno di quei momenti che solo le vette ti sanno regalare. Riprendiamo a scendere per la stessa via dell’andata, una volta sulla sella non giro a sinistra, abbandono il sentiero per prendere quello che viaggia sulla piccola dorsale che abbiamo davanti, vorrei tanto aggirare la tonda gobba da destra invece che da sinistra; sapevo che mi sarei andato ad infilare in un qualche tratto di fuori sentiero, per giunta ripido, cosa che notoriamente non è terreno adatto per Marina, mi sarei andato ad infilare dentro quel paio di fossi profondi che avevo visto all’andata; dovessi spiegare perché non ci riuscirei, i luoghi impervi e fuori sentiero sono stati sempre una calamita fin dai tempi del folto gruppo di Aria Sottile, evidentemente qualcosa mi è rimasto dentro. Tant’è che abbandoniamo presto il sentiero che fila sulla crestina, prendiamo a scendere dentro il fosso attirati da tracce sul versante opposto che sembrano sentiero ma che forse sono solo calpestio di animali. Per scendere dentro il primo fosso alcuni tratti sono ripidi, erbosi, il fondo occorre guadagnarselo anche strisciando, a volte col sedere. L’alveo del fosso è per alcuni tratti ancora invaso da neve, è profondo e molto incassato, dalla V del profilo dell’orizzonte libero spicca il Terminillo ormai quasi ricoperto dalle nuvole. Anche salire su versante opposto è cosa da stare guardinghi, molto ripido ed erboso, la scivolata potrebbe stare dietro l’angolo; mi aspetto da un momento all’altro qualche rimbrotto di Marina che un po’ più a monte ha scelto altre traiettorie, non meno semplici comunque, invece poco dopo me la ritrovo che fila in bilico sopra di me su una traccia che taglia, parallela alla mia, la ripida gobba. Aggiriamo il tondo mammellone ed entriamo nel bacino del secondo fosso, quello in cui avevo notato le opere di contenimento; scenderci dentro era faccenda altrettanto delicata, ripido, erboso e privo di traccia ben definita. Le linee le cerco guardando sul versante opposto il modo di salire fino alla carrareccia che scorreva alta; un abbozzo di traverso lo vedo che parte da una delle opere murarie di contenimento, riesco a scendere dentro il fosso più a valle dell’attacco del sentiero e per un bel tratto lo risalgo, più largo del precedente ma altrettanto incassato. Marina, di certo ormai stanca di questa variazione mi segue silenziosa, sono certo che conta i passi che la dividono dal sentiero, apprezzo il suo silenzio e la sua pazienza. Quando riguadagniamo la strada ci accorgiamo che il cielo è ormai coperto da nuvoloni grigi ora più ora meno minacciosi; le previsioni meteo ci promettevano pioggia e temporali sparsi dopo le quindici del pomeriggio, erano da poco passate le tredici, non potevamo certo contare su un salvacondotto in orario per cui ci siamo disposti a rischiare la pioggia. E invece no, momenti di schiarite e di addensamenti ci hanno accompagnato per tutto il ritorno, che è filato senza ulteriori variazioni sul percorso dell’andata, ma la pioggia ci ha graziato. Asciutti siamo arrivati alla macchina, momenti di maggior luce ci hanno regalato immagini davvero belle delle coste del Breccioso e dell’Elefante, ne ho approfittato per portare a casa qualche scatto in più. Ovvio, non potevamo farci scappare la stupenda location del posto; una volta alla macchina nel giro di cinque minuti abbiamo raggiunto il rifugio Sebastiani, nemmeno a dirlo, c’era un tavolo libero, giusto davanti al fuoco, che ancora si faceva apprezzare non poco. La pioggia? Saliti in macchina, due tornanti sulla via del ritorno ed ha iniziato a piovere, ci ha lasciato alle porte di Roma. Meglio di così ….